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Perché tornare a Venezia, di tanto in tanto

Venezia

Perché tornare a Venezia, di tanto in tanto

Non andavo a Venezia da 10 anni: dal 14 luglio del 2007, quando Pina Bausch aveva portato Agua, nomen omen, alla Fenice.

Ero arrivata in treno, col fidanzato di allora. Palco molto laterale, lacrime, meraviglia.

La prima volta invece avevo 16 anni ed era il primo piccolo viaggio con la mia amica del cuore, Paola. Ci eravamo divertite moltissimo: vaporetti, scalini, chilometri, mostre.

E poi con la famiglia, papà, mamma, sorella.

E a qualche festival del cinema, scappando dal Lido.

Ho sempre avuto la sensazione che fosse una città irreale, uscita dalla fantasia di Calvino, come una Città Invisibile.

Questa volta c’era di mezzo l’amore: di e per una persona, per i propri sogni, per i progetti che ci assomigliano.

Non ero mai stata a Venezia dopo Varanasi, che mi viene in mente solo adesso, scrivendo. E non è solo per il libro “Morte a Venezia. Amore a Varanasi”, ma è per quel dialogo fra vita e morte che scorre sul fiume. Ed è per quell’intreccio di vie che assomiglia ai grovigli di pensieri: fitti, tortuosi, stretti, irregolari. Varanasi, in realtà, mi è venuta in mente in una via strettissima pestando le pietre e guardando le botteghe , dove ho adorato perdermi. Senza google maps, senza cartine, Senza nulla.

Di giorno Venezia è un brulicare di trolley, turisti americani e giapponesi, gondole e bastoni per i selfie ma di sera diventa musica: risuonano i passi per le calli e spesso ci si trova a muoversi in un labirinto che finisce in un canale, allora risuona lo sciabordio dolce dell’acqua, mentre la luce colora i palazzi che si riflettono nei canali illuminati dalla luna.

L’odore è mare e fiume e pesce e alghe. Cartocci di fritti e umido, salmastro e sarde in saor.

L’aria è nitida e fresca e entra nelle narici e accarezza la pelle.

Sembra un set di una città fantasma, il palco di un teatro. Pensi sempre che possa spuntare qualcosa di straordinario nella quiete di un campo, nella geometria irregolare delle finestre, nell’acqua che entra nelle case e si lascia inghiottire dai portoni mangiati.

L’irrealtà domina sulla malinconia, la decadenza abbraccia lo splendore, gli opposti si uniscono, ed è forse qui che mi sento in India e vorrei che la notte non finisse mai.