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The Detachment, il distacco: il dolore ha gli occhi di Adrien Brody

Occhi malinconici, naso cupo, bocca triste. C’è una disperazione profonda e dolente che viene dal passato nel professore supplente Henry Barthes (uno straordinario Adrien Brody) nel film The Detachment di Tony Kaye. Nel presente c’è una supplenza di tre settimane in un liceo di periferia frequentato da ragazzi violenti, emarginati, senza speranze con genitori menefreghisti e assenti e professori che non si rassegnano. Nel futuro suo e loro il nulla. O forse no. Educare è una missione. E richiede un coraggio e una capacità di guardare le cose da fuori. La letteratura, la sua materia, può salvare, perché porta in un altro mondo.

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Il disegno danzato: quando il cartone animato sposa la musica

Il cinema d’animazione era ancora muto e già danzava. Ballava su una musica immaginaria, un ritmo che dettava il succedersi delle sequenze, dei movimenti e della comicità, lasciando spazio a eventi improvvisi e sorprendenti. A differenza del cinema vero che riproduce un movimento esistente in fase di ripresa, il cartone animato è una successione di immagini senza dinamicità interna. Per questo, ancora più del cinema dal vero, ha bisogno di creare un rapporto simbiotico con la musica perché solo lei può infondergli la terza dimensione, il corpo, la profondità che da solo non può avere. In definitiva, la musica è un po’ l’anima del cartone, e il cinema d’animazione è costruito come un balletto, in cui i movimenti dei personaggi e il ritmo musicale sono in un rapporto d’interdipendenza molto stretto.

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Dark Shadows: Johnny Depp e Tim Burton, il richiamo del sangue

Il pallore di Willy Wonka, le mani allungate e armate di Edward mani di forbice, l’eleganza dandy e d’altri tempi del Cappellaio matto. Così si presenta Barnabas Collins, interpretato da Johnny Depp, in Dark Shadows di Tim Burton.
Il viaggio del regista fra gli esclusi dall’aspetto mostruoso e dal cuore tenero e, a volte dal cuore mostruoso e dall’aspetto tenero, continua. A ogni film sembra accogliere i precedenti e arricchirli di nuova linfa, sangue in questo caso: alla ricerca di una famiglia a cui appartenere, di una casa in cui sentirsi amati, di un cuore a cui legarsi. Senza poter scappare dalla propria natura, spesso crudele. E non per scelta.
Dark Shadows è una serie tv di moda dal 1966 al 1971 proposta sul grande schermo dal regista visionario che coglie l’occasione per accompagnarci nella sua cinematografia e, come sempre, nella nostra anima. E lo fa in modo divertente, magico, catturandoci nel suo mondo di visioni incantate.

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Il castello nel cielo: diventare grandi fra sogni e città volanti

I film di Hayao Miyazaki sono sempre un viaggio: nelle emozioni, nella fantasia, nei sentimenti puri dei piccoli (spesso i protagonisti sono bambini) nella visionarietà, nel potere dei sogni.
Il castello nel cielo, oggi nelle sale, è un film di animazione del 1986 ma non è datato affatto, se non per la musica un po’ troppo di arredamento.
Già dai titoli di testa siamo proiettati in un mondo di castelli volanti, città affascinanti, antiche civiltà scomparse. Sembra di vedere volare sotto macchine ed eliche Machu Picchu, Angkor Wat, e la Pandora di Avatar.

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Diaz: un pugno nello stomaco accende la rabbia. E diventa cinema.

Un cazzotto nello stomaco. Un film che lascia doloranti. E arrabbiati. Molto arrabbiati. Che la si viva come il giornalista (Elio Germano) che crede ancora che il suo mestiere si faccia andando sul posto e non stando seduto in redazione davanti al monitor, come il pensionato che dormiva alla Diaz per caso, come la giovane attivista tedesca che vede i suoi ideali frantumarsi come i denti sotto i manganelli, come l’avvocato del Genoa Social Forum che offre sostegno o informazioni o come il poliziotto illuminato (Claudio Santamaria) che ferma la macelleria e chiama le ambulanze.

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Pollo alle prugne. Vivere senza gusto? No grazie, meglio morire.

Quando la vita perde gusto e non si ha più voglia di mangiare il proprio piatto preferito, allora meglio lasciarsi morire. È quello che succede a Nasser Ali (Mathieu Amalric), virtuoso del violino. Siamo a Tehran nel 1958. Quando la moglie mai amata (Maria de Medeiros) ma sposata per compiacere la madre (Isabella Rossellini) spezza il prezioso strumento per attirare l’attenzione su di lei e non sulla musica, Nasser Ali decide di lasciarsi morire nel buio della sua stanza.