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“Adoro i vostri musei ma rimpiango sempre di starci troppo poco”

AlainPlatel

“Adoro i vostri musei ma rimpiango sempre di starci troppo poco”

Su La Stampa, 12 settembre 2014
Intervista a Alain Platel

Capelli folti, grigi, ricci. Volto sorridente. E quegli occhi. Curiosi, vivaci, penetranti. Per tutta l’intervista scavano nelle domande e nelle risposte e non si allontanano mai dal fuoco. Alain Platel, il coreografo fiammingo che Gigi Cristoforetti, insieme alla Fondazione Teatro Stabile di Torino, ha scelto per aprire e chiudere l’edizione 2014 del Festival Torinodanza è una persona straordinaria. Da ascoltare per ore. Il tono è pacato, la disponibilità assoluta. Lo ringrazio del tempo che mi dedica e mi scuso perché gli chiederò di raccontare a parole ciò che un coreografo esprime con la danza.
«Non è un problema, anzi – mi dice Platel – questo è il tema di Tauberbach, la parola in mezzo ai gesti in una performance. È quello che è successo all’attrice Elsie de Brauw con i danzatori. Mi piace mescolare discipline diverse».

Cosa caratterizza Tauberbach, che ha avuto grande successo a Torino?
«La particolarità è la presenza dell’attrice. Una persona che cerca di controllare la propria vita attraverso il linguaggio, mentre intorno a lei ci sono persone più fisiche, che usano i sensi. E poi c’è tutto il lavoro di improvvisazione sul documentario Estamira e su Tauberbach, Bach cantato dai sordi».

C’è sempre uno stimolo nelle macerie dell’esistenza?
«Certo. La ricerca di qualcosa di positivo anche in un contesto squallido. La domanda è: “come si può rimanere nobili e belli in una situazione meschina?” Un percorso di gioia e generosità».

Quanto conta il rapporto con il pubblico?
«Mi affascina trovare un modo per farlo partecipare, coinvolgerlo senza forzare. L’ideale è fare in modo che chi guarda pensi “potrei essere uno di loro” non nel senso delle doti tecniche ma del riconoscersi nell’emotività e della fragilità di esseri umani. Mi piace creare un vero contatto, una relazione sottile, invisibile, emozionale».

A proposito di emozioni…
«Sentimenti ed emozioni sono il vero lavoro. Sono diventato consapevole di come si possa lavorare intimamente nei sentimenti guardando il documentario su Tauberbach. Mi sorprende la profondità del viaggio che compiono i danzatori nelle emozioni. Le persone lavorano con me da molto tempo e si fidano, amano questo tipo di esplorazione. Il mio compito è essere attento: non è psicoterapia anche se fare performance è terapeutico. Quando vedo materiali troppo fragili rispetto alle personalità non forzo mai».

E la musica si può considerare un’emozione?
«L’impatto della musica è più diretto del teatro e della danza. La musica è universale e raggiunge molte più persone direttamente».

Il lavoro che svolge sull’improvvisazione e sulle domande è spesso considerato simile a quello di Pina Bausch. Le pesa questo confronto?
«È un onore. L’ho incontrata qualche volta. Quello che abbiamo in comune è la curiosità verso gli esseri umani. Il metodo di fare domande non è così originale, ma è il modo di conoscere che conta».

Ha mai pensato di fare cinema?
«Abbiamo fatto un film su due danzatori della compagnia che vengono uno dal Burkina e uno dal Vietnam. Li abbiamo ripresi e poi li abbiamo accompagnati nelle rispettive famiglie e abbiamo filmato le reazioni dei parenti che non li avevano mai visti danzare. Bello, toccante e imbarazzante».

Come si sente ad aprire e chiudere Torinodanza con due spettacoli diversi?
«Un grande onore. Tauberbach e Coup Fatal (10-12 ottobre) lsono molto diversi. Coup Fatal è più nuovo e ho lavorato con molte persone nuove, compresi i 13 musicisti congolesi con una vitalità unica».

Le piace Torino?
«Dopo tanti anni di collaborazione c’è un rapporto speciale con il pubblico. Amo le relazioni a lungo termine e i ritorni. La città mi piace molto. Adoro il centro e girare per musei. Tutte le volte, però, rimpiango di stare troppo poco tempo».

E la cucina piemontese?
«Un paradiso. Ma quando vengo qui non sono capace di scegliere. Mi piace tutto».